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Prima pagina
Prima pagina del 16 ottobre 2019

Trattenuta all’aeroporto: nelle stanze della National Security dodici ore tra interrogatori e minacce per essere poi rispedita indietro
Egitto, vietato entrare se vuoi sapere di Regeni
Diciamo subito il dettaglio che dice tutto: gli egiziani non mi hanno consentito di chiamare nessuno. Ero lì già da ore, quando hanno lasciato un telefono un attimo incustodito. E ho scritto a mio padre. Quando ci spiegano che è giusto avere di nuovo un ambasciatore al Cairo, anche perché altrimenti, in caso di problemi, chi interviene?, la verità è che senza quel messaggio fortuito, la Farnesina mi starebbe ancora cercando. Poi, sì, la nostra console è arrivata subito. Ma hanno negato l’ingresso alla sua interprete. Per cui era lì, senza capire ciò che dicevano. Quando sono atterrata da Milano, nella notte tra giovedì e venerdì, intorno alle tre, un cartello di benvenuto attendeva Carlotta, dipendente dell’Eni. Io sono solo una giornalista. E quindi, al controllo passaporti non mi è toccata la corsia preferenziale, ma una porta alla sua destra, e un tetro cunicolo che apre su un labirinto di stanze buie e scalcinate della National Security. Niente di nuovo, comunque. Non sono che l’ultima di un lungo elenco. In questi anni sono stati rispediti indietro decine di giornalisti. Dal New York Time in giù. E noi italiani, in più, abbiamo questa colpa dell’inchiesta Regeni. Perché in paesi come l’Egitto, a cui la procura di Roma chiede da mesi, inutilmente, d’ascoltare un nuovo testimone, arriviamo lì dove per la magistratura è più difficile arrivare. E l’inchiesta Regeni – non posso dire di più, ora – per noi certo non è chiusa. Anche se forse, come mi hanno detto un po’ sinistri, sono stata fortunata a essere fermata subito. Mentre ero lì, sono andati a prendere a casa il corrispondente dell’Associated Press. Secondo Amnesty International, in Egitto spariscono tre Regeni al giorno. E in queste settimane, Al-Sisi è particolarmente nervoso. Gli egiziani sono tornati in piazza. Ma questa volta, chiamati non dall’opposizione, ma da una figura interna al regime: un imprenditore che con dei video su YouTube ha iniziato a raccontare di sprechi e le tangenti, gli appalti truccati per milioni e milioni di dollari, mentre un terzo della popolazione è sotto la soglia di povertà. E così, mi hanno subito rinchiuso in questo ufficio umido e malconcio di schedari arrugginiti e tavoli in formica sbreccata. Ad aspettare, al fondo. Aspettare e basta. Perché poi, sapevano già tutto di me: non è che avessero bisogno di chiedermi molto altro.
(…)
Francesca Borri – il Fatto Quotidiano